Suspiria: gennaio 2016

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martedì 26 gennaio 2016

L'inferno di Tomino- Il poema dannato


I giapponesi, si sa, sono da sempre abili narratori dell'intero panorama horror, nonché imponenti autori di pellicole e leggende da brivido. Un racconto tradizionale giapponese poco conosciuto in Italia e degno di essere citato è, per l'appunto, ''L'Inferno di Tomino'', più comunemente appreso come ''Tomino's Hell'' (in lingua originale Tomino no Jigoku).
Apparentemente di Yomota Inuhiko e contenuto nel libro ''The heart is like a rolling stone'', questo poema precedentemente faceva parte della 27esima collezione di poemi di Saijo Yaso, Gold Dust, datata 1919. 
                                                In foto, Saijo Yazo, 1931

Come tutte le leggende non si può sapere con precisione né come, né quando, né perché l'inferno di Tomino ebbe inizio, per poi manifestarsi in modo più concreto successivamente e dar vita a qualunque ipotesi.
Le voci asseriscono che ci fosse una sorta di singolare avvertimento riguardo al poema maledetto, voci preoccupanti e quasi da prendere sul serio, che avevano come unico scopo quello di dare un consiglio ad ogni lettore di turno:''Nel momento in cui leggerete questa poesia ad alta voce, cose tragiche accadranno e una maledizione si abbatterà su di voi''.
La poesia poteva esser letta in mente, ma, attenzione: mai a voce alta. 
Come forse volere iniziale del creatore, ci è stata riportata una raccapricciante spiegazione celata dietro quelle parole.
Tomino, che era una bambina (o bambino) disabile, scrisse questa misteriosa poesia e a causa di ciò, i suoi genitori timorosi, per punirla di tale atto la rinchiusero nella cantina di casa privandole di assumere cibo e acqua, fino a quando non la portarono alla totale morte. 
Successivamente, lo spirito di Tomino, senza pace, rimase intrappolato da quei versi fino a renderli infestati e maledetti; una volta ripetuti ad alta voce, come da rituale, la maledizione della povero Tomino si sarebbe abbattuta sulla nuova vittima, così come successe con i primissimi bersagli: i suoi stessi genitori. 
Il significato che si cela dietro questo canto sicuramente non sarà mai rivelato, ma l'interpretazione più attuabile vedrebbe Tomino in preda al dolore, nella sua discesa negli Inferi, tormentata fino all'ultimo spiro. Ci sarebbe da considerare l'ipotesi che la sorella di Tomino, a cui la fanciulla teneva particolarmente, avesse fatto una fine poco gradevole e la stessa Tomino, dopo aver assistito all'atto, l'avesse seguita incappando nell'Inferno;in secondo piano, sarebbe potuta essere proprio la sorella maggiore di Tomino, la carnefice di quest'ultima.
Se si analizza dettagliatamente verso per verso, il mero orrore risiede nella malinconia, nella macabra perdizione di uno spirito tormentato, nella più pura solitudine, nello smarrimento verso l'oblio di un'anima candida che, inspiegabilmente, si ritrova faccia a faccia con l'Oscurità e, con essa, il Caos.
Il poema dannato non è altro che l'eco delle lacrime che urlano attraverso l'Inferno.

''L'inferno di Tomino
La sorella maggiore vomita sangue, la sorella minore sputa fuoco, 
la dolce Tomino sputa gioielli preziosi.
Tomino morì sola e cadde all'Inferno.
L'inferno è avvolto nelle tenebre e anche i fiori non fioriscono.
E' la sorella maggiore di Tomino la persona con la frusta?
Il numero di segni rossi è preoccupante,
Frustata, picchiata, pestata.
Il sentiero per l'Inferno eterno è uno solo.
Mendicare per la guida nelle tenebre dell'Inferno
Dalla pecora d'oro all'usignolo
Quanto è rimasto nella borsa di cuoio
Prepararsi per il viaggio senza fine all'Inferno.
Arriva la primavera e nei boschi e nelle valli 
Sette giri nella valle oscura dell'Inferno
Nella gabbia è un usignolo, nel carrello una pecora,
negli occhi della dolce Tomino ci sono lacrime.
Piangi, usignolo, per i boschi e per la pioggia
intonando il tuo amore per tua sorella
L'eco delle tue lacrime urla attraverso l'Inferno
e i fiori rosso sangue fioriscono.
Attraverso le sette montagne e valli dell'Inferno, 
la dolce Tomino viaggia da sola.
Per darvi il benvenuto all'Inferno, 
le punte luccicanti della montagna agugliata
forano la carne e le ossa
come un segno... della dolce Tomino.''


La leggenda della Llorona


La Llorona è una figura leggendaria proveniente dall'America Latina, (associata alla reale storia de La Malinche) protagonista di una storia molto drammatica che tutti i nonni della regione avranno raccontato ai loro figli per lungo tempo.
Esistono molte variazioni, ma la storia più popolare narra di una bellissima e povera donna abitante di un antico villaggio, Maria, accecata dalla propria bellezza. Ella era talmente orgogliosa del suo aspetto a tal punto da ritenersi superiore a chiunque incontrasse, affermando che avrebbe sposato solamente l'uomo ''più bello del mondo''. Un giorno arrivò nel suo villaggio un uomo che pareva proprio quello dei suoi sogni, un ricco hidalgo, un focoso nobiluomo proprietario di un ranch e figlio di un ricco proprietario delle pianure meridionali. Bello, ammaliatore di donne (grazie anche alle sue serenate d'amore), dopo vari rifiuti da parte di Maria, riuscì a conquistare quest'ultima e a farla innamorare perdutamente. In poco tempo i due giovani si fidanzarono e, di seguito, arrivarono le nozze che portarono anche due figli.
Dopo pochi anni, l'uomo decise di tornare alla vita nelle praterie e tornava al villaggio solo per pochi mesi, curandosi unicamente della salute dei figli e non di Maria, la quale, orgogliosa, cominciò a provare grande ira e invidia nei confronti dei suoi bambini. L'uomo che amava l'aveva abbandonata e donava attenzioni solamente ad essi. Una sera, mentre la donna passeggiava con i suoi figli sulle rive di un fiume in Messico, l'hidalgo si presentò in una carrozza; accanto a lui vi era una donna, benestante e nobile, la sua nuova moglie. Parlò ai suoi figli ma non guardò nemmeno un attimo Maria e andò via.
Spinta dal dolore e dalla rabbia, gettò i suoi figli nel fiume e si rese conto di ciò che aveva fatto solamente quando scomparvero nel torrente. Tentò di raggiungerli e salvarli, ma fu troppo tardi: il giorno seguente venne trovata senza vita sulle sponde del fiume.
In un'altra versione dei fatti, più moderna, sposò un ricco hidalgo proprietario di varie fabbriche sul fiume. Durante la gravidanza bevve l'acqua del fiume e le nacquero due gemelli ciechi, perché il marito aveva inquinato il fiume con le sue fabbriche. Lui non la volle più, ritenendola colpevole della cecità e della malformazione dei suoi figli e sposò una donna ricca interessata alle sue fabbriche, così lei scaricò la sua rabbia sui suoi figli malati e si ammazzò nel fiume per il dolore.
La gente del posto la sotterrò proprio lì, dove era morta. Da quel giorno si dice che gli abitanti del villaggio vedessero la donna, vestita di bianco nei pressi del fiume, e la sentissero piangere per i propri figli e chiedere di loro. Non fu più uso comune chiamarla Maria: divenne la donna piangente, (The weeping woman) o più abitualmente, la Llorona. Da lì ad oggi si dice che la Llorona spazzi ancora le rive coi suoi lunghi capelli scuri, infilando nell'acqua le lunghe dita e dragando il fondo, in cerca delle anime perdute dei suoi bambini. Per questo motivo, i fanciulli non devono avvicinarsi al fiume di notte o uscire quando c'è buio, perché la Llorona, potrebbe scambiarli per i propri figli e portarli via per sempre, senza più restituirli.

La leggenda della Janara


Nata, presumibilmente, nel periodo del regno longobardo su Benevento, a partire dal 1273, l'antica credenza della Janara portata avanti da generazione in generazione è ancora in grado di incutere timore; quando il paese aveva già cambiato modalità di pensiero e religione passando al cristianesimo, vi era qualcuno che, standosene in silenzio tra l'ingenua civiltà contadina del Sannio, continuava a venerare l'occulto nella sua forma più pura, non passando però inosservato: la Strega Beneventana.
Discendenti dei pagani, il nome attribuito alla Strega campana sta a significare ''sacerdotessa di Diana'', essendo loro legate all'antichissimo mito della Dea (alcuni degli Dei pagani più venerati erano per l'appunto Diana, Iside ed Ecate) o ''porta'', derivati corrispettivamente da Dianara e dal latino ''ianua''.
Non si può sapere la vera natura delle Janare; esse potevano essere donne adulte, anziane ricurve, bellissime giovani, selvagge abitanti del bosco o vicine di casa conosciute in tutto il paese ma che potevano condurre la loro vita senza destare sospetti: in ogni caso, ciò che si sapeva, era che avessero donato la loro anima a Satana.
Nella vita ordinaria di tutti i giorni venivano etichettate dai passanti che avevano contatti con loro, come donne maligne, taciturne e acide, mentre semplicemente non volevano esser disturbate; difatti, se qualcuno serbava loro comportamenti corretti, le Janare promettevano ausilio e protezione a questi ultimi, alla loro famiglia e alle loro discendenze (cosa che avveniva anche se qualcuno riuscisse nell'intento di acciuffarle quando erano ''incorporee).
Era uso per le streghe beneventane soprattutto nelle notti di tempesta, spiccare il volo su di una scopa dopo essersi cosparse di un unguento particolare, per poi riunirsi di notte sotto un grande noce situato al di sotto del Ponte Janara, dove avevano luogo i loro sabba nei quali si venerava la figura del Caprone. (lungo le ''Coste Janare''; si trova un piccolo lago avente un vortice che risucchia tutto ciò che si trova in acqua, chiamato ''gorgo dell'Inferno'' e associato ad un portale per gli Inferi).
Esperte di erbe, magia, conoscenza, fatture e occulto, queste figure solitarie di notte venivano avvistate mentre cavalcavano una giumenta fino a stancarla e portarla alla morte prematura.
A loro, veniva accostata anche la tremenda sensazione di soffocamento durante la notte. Per evitare il loro arrivo in casa, i cittadini erano soliti utilizzare sacchi di sale, gomitoli di lana o manici di scopa di miglio davanti alle loro porte; una volta arrivate, le Janare si sarebbero distratte contando i granelli di sale o i rametti di scopa, fino all'alba.
Inoltre, per riuscire ad acciuffarle per i capelli, loro punto debole, si usavano formule in dialetto beneventano; quando la strega chiedeva cosa si avesse tra le mani, bisognava rispondere ''Ferro d'acciaio'' e non ''capelli'', per evitarne la fuga, mentre per capire la loro natura, si riempiva un bicchiere di sale pronunciando le parole ''vieni col sale'' , così la donna sarebbe venuta a bussare alla propria porta il giorno dopo, chiedendo proprio un bicchiere di sale.
Molti racconti narrano della loro presenza, alcuni simili tra loro, altri differenti, ma riportanti sempre la stessa e unica storia, nonostante ne rimanga vago il confine tra realtà e immaginazione.
Che ci si creda pienamente o meno, che sia un semplice racconto tradizionale oppure no, una leggenda ha sempre un fondo di verità.

Video ufficiale:
https://www.youtube.com/watch?v=Skdbp89QjTk&feature=youtu.be